venerdì 13 novembre 2015

Un diritto non è che l'altro aspetto di un dovere (Sartre)



Ci siamo: ancora un uso a cazzum dei "diritti" e un intendimento - ancor più idiota - di salvaguardare qualcuno sul nulla. Come e dove? 
A Firenze dove c'è stata una querelle per la  decisione di una scuola di annullare la visita degli alunni a un'esposizione a Palazzo Strozzi dedicata alla raffigurazione del sacro nell'arte moderna per "venire incontro alla sensibilità delle famiglie non cattoliche".

Tralasciando per un attimo il fatto che sarebbe utile sopprimere fisicamente coloro che hanno partorito l'idiozia, mi spiegate come fanno a vivere i non cattolici di Firenze? O meglio: i non cattolici in un paese pieno d'arte sacra come fanno a non rimanere turbati, depressi, schizofrenici e mentalmente disturbati?

A me sembra che voi dirittomani morirete blaterando fino all’ultimo fiato di diritti che siano civili o meno: dagli uomini che si sposano con uomini, donne con donne, mamme surrogato, figli in provetta su cui poter scegliere colore della pelle e capelli, gender e genitori uno/due e altri milioni di esempi.
A ogni capriccio di qualche lobby, subito pronti con il "diritto" perché è l'amore e la felicità a dover trionfare, non è vero?
Poi però c'è l'altro lato della medaglia: quello di una società dove è diritto (a discapito di tanti altri) spostare l'azienda dove ci sono schiavi invece che lavoratori, perché costa meno. È un diritto "assumere" gente che fa il lavoro senza garanzie e tutele, alla metà dello stipendio.
È un diritto incazzarvi contro "questo sistema" ma poi nel pratico non fate un bel nulla per cambiare le cose.
È tutto un diritto o presunto tale purché riguardi voi.
Quindi sì, dirittomani: morirete pieni di diritti civili, disoccupati ma contenti con un cazzo in culo.

Contenti voi...








lunedì 9 novembre 2015

Andiamo a teatro: Gabbiano di Anton Čechov



Un giovane teatrante pieno di dubbi sulla necessità del fare teatro oggi, un famoso scrittore che si interroga sulla necessità o meno di scrivere, una giovane ambiziosa che sogna il successo, una donna di successo che non sogna, un’umanità che desidera essere personaggio, personaggi che si specchiano in un lago che mostra la loro misera umanità.

“Perché scegliere di fare Gabbiano? È la domanda che continuo a farmi, alla quale non ho risposta. Almeno non una. Intanto è un Classico e questo mi permette di lavorare sulla memoria di un testo che ho sempre amato, su cui ho sempre lavorato, sul quale ho fatto centinaia di ipotesi, che ogni volta cambiano e si contraddicono. In secondo luogo mi viene da dire che Gabbiano parla di cose che tutti sanno: di rapporti familiari, di conflitti e di delusioni, senza averne consapevolezza. Entrare in un mondo familiare e vedere che ogni volta ti mostra qualcosa che non avevi notato dà la curiosa sensazione di visitare un universo conosciuto e, al tempo stesso, misterioso: “Čechov è talmente semplice che fa paura”, diceva Gor’kij.

Gabbiano è veramente un testo misterioso: ci mostra un’umanità, una famiglia che non riesce mai ad essere sincera e che, per riuscire a convivere, deve continuamente mentire e immaginarsi di essere qualcosa che non è.

Nel momento però che una cosa è immaginata, non diventa comunque vera? In Gabbiano tutti si rappresentano, anzi sono tutti ossessionati dalla rappresentazione. Si impegnano a vivere una vita che non è la loro e tentano di eternarla, di renderla un presente continuo. Non sarà perché tentano disperatamente di fermare la vita e bloccare dentro di loro il sinistro desiderio di voler uscire, di volare via per fare parte di qualcosa di più grande? Kostantin, nel suo testo, parla di un’anima universale che tutto ingloba; il medico Dorn parla del destino dell’umanità di ricongiungersi, prima o dopo, ad un tutto. Nina dice: “pensano che io voglia fare l’attrice, ma io sono attratta dal lago, come un gabbiano”. “Anche lo spirito è fatto di materia”, dice il maestro Medvedenko.

Teatro e mistero, verità e sogno. Non a caso i protagonisti sono attori, scrittori, registi, e l’umanità che gira intorno a loro, fatta di contadini, di lavoratori, non sogna altro che essere attori e scrittori. Ossessione della rappresentazione di sé. I personaggi recitano su un palcoscenico che si specchia in un lago che mostra a sua volta la loro misera umanità e l’incapacità di volare in alto. Il lago li attrae verso il basso.

Il lago: l’etimologia della parola viene dal latino Lacus e significa cavità, spaccatura, incavo riempito d’acqua, che lega anche con Lakkós, il baratro. Se la parola fosse presa nel suo significato simbolico, potremmo dire che chi vive vicino ad un lago vive su una spaccatura, su un baratro. Il lago, quindi, condiziona le vite di chi lo abita, di chi lo affronta. L’incavo è però riempito d’acqua dolce, piatta, che fa da specchio. Per questo, spesso, il Lago diventa anche sinonimo di occhio, è l’occhio (profondo) dentro il quale ci si specchia. Il teatro è il grande specchio del mondo. Non potrebbe essere che il lago e il teatro in Čechov siano la stessa cosa? Non potrebbe essere che sia la rappresentazione a spingere l’uomo verso il baratro e a impedirgli di spiccare il volo verso l’alto? Ma l’ossessione alla rappresentazione non è comunque un tentativo dell’uomo di sconfiggere la morte? Immaginarsi di essere altro da sé e dare corpo all'immaginazione, non è un modo per lasciare delle tracce nel mondo?” (Dalle note di regia di Carmelo Rifici)



Con: Fausto Russo Alesi, Antonio Ballerio, Giovanni Crippa, Ruggero Dondi, Zeno Gabaglio, Mariangela Granelli, Igor Horvat, Emiliano Masala, Maria Pilar Pérez Aspa, Giorgia Senesi, Anahi Traversi
Adattamento e regia: Carmelo Rifici
Scene: Margherita Palli
Costumi: Margherita Baldoni
Musiche: Zeno Gabaglio
Luci: Jean-Luc Chanonat
Produzione: LuganoInScena, 2015
Coproduzione: Teatro Sociale Bellinzona - Bellinzona Teatro, LAC Lugano Arte e Cultura e Piccolo Teatro di Milano - Teatro d’Europa